Anche nel 1973 in Italia c’erano le domeniche a piedi, non per il buco dell’ozono o per contenere il traffico inquinante delle auto, ma per la grande crisi petrolifera che vide un aumento verticale del prezzo del barile come conseguenza di una diminuzione dell’estrazione. La causa era riconducibile alla guerra “lampo” del Kippur, che di fatto portò all’embargo contro tutti coloro che sostenevano lo Stato d’Israele, quindi in primis Stati Uniti, ma anche moltissime nazioni occidentali. In quell’occasione crollò il numero di immatricolazioni d’auto, e il costo del barile abbandonò per sempre i 3 dollari per iniziare un’ascesa che durò fino al picco del 1981 sopra i 34 dollari, mentre in Italia il costo di un litro di benzina raddoppiò nel giro di poco.
Da quegli anni si possono contare altre crisi legate all’oro nero, ma la più significativa fu quella del 2008, quando il prezzo del petrolio toccò i suoi massimi (intorno ai 150 dollari per barile) prima di scivolare giù, schiacciato dalla bolla dei mutui subprime e dal fallimento dei fallimenti, rappresentato dal colosso finanziario americano Lehman Brothers. Una crisi profonda che alimentò anche l’industria letteraria e cinematografica con tutta una serie di libri e film alcuni in uscita proprio in questi giorni (“La grande scommessa” di Adam McKay, film in testa alle classifiche e candidato Oscar).
Il crollo del prezzo del petrolio
Dal 2014 invece si sta assistendo ad un altro fenomeno: una lenta ed inesorabile discesa del prezzo del greggio capace di arrivare anche sotto i 30 dollari, ricordando le quotazioni dei primi anni del 2000. È proprio il prezzo del greggio una delle cause scatenanti di questa crisi dei mercati finanziari mondiali che ha accelerato nella prima parte del 2016. Mentre nel ’73 l’alto valore del petrolio aveva dato il via ad una crisi energetica, il prezzo basso di questi mesi sta causando una crisi finanziaria globale: è recente il taglio del rating dell’Arabia Saudita a causa la sua “eccessiva dipendenza dal greggio”, ma anche il declassamento del Brasile con tanto di outlook negativo, cui hanno fatto seguito quelli di Kazakhstan e Oman.
Questa morsa sta mettendo in grave difficoltà anche Stati come il Venezuela, che, nonostante sia tra i primi produttori mondiali di greggio, sta cercando ogni intervento possibile per salvare la nazione da un default dietro l’angolo. Il bolivar la valuta nazionale, è stato pesantemente deprezzato e la benzina per il consumatore finale è salita di oltre il 6.000%, in un Paese dove fino a ieri un litro di acqua costava di più di un pieno di benzina.
Ma chi sta tenendo il prezzo schiacciato sui 30 dollari? La causa principale è ricollegabile all’Iran, l’Iraq e l’Arabia Saudita, che con il loro braccio di ferro, mirante di fatto a non bloccare la produzione, continuano sul fronte finanziario l’eterna guerra religiosa tra sciiti e sunniti che incendia il mondo arabo.
Gli effetti sull’economia globale
Ma allora quale potrebbe essere un prezzo equilibrato per l’oro nero? C’è chi dice che basti sia superiore ai 40 dollari, altri nel range 60-80 dollari per barile. Un fatto è sicuro: a 30 dollari molti pozzi dovranno chiudere in quanto non più redditizi, ma soprattutto si assisterebbe ad underlisting di un numero elevato di piccoli produttori schiacciati dai debiti.
La crisi del petrolio in queste settimane ha spinto l’OCSE a ridurre al 3% dal 3,3% le stime per la crescita del PIL mondiale, portando al 2% quella degli States e a 1,4% quella dell’eurozona, mentre il Giappone non raggiunge l’1%. La Cina potrà vantare una crescita di circa più del doppio del Pil mondiale, ma i fasti della doppia cifra sembrano molto lontani e gli interventi di Pechino sullo yuan rappresentano l’ennesimo campanello d’allarme sulla tenuta dell’economia.
In questa partita del petrolio il Vecchio Continente sta sostanzialmente assumendo un ruolo passivo con il rischio che, come scriveva lo studioso Umberto Eco, “l’Europa lasciata da sola per forza di cose o diventa europea o si sfalda”.