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Attacchi a Bruxelles, ora una nuova politica anti-terrorismo

Quella di stamattina doveva essere una giornata come tante, anzi un po’ più allegra grazie all’avvicinarsi delle ferie pasquali. Poi le prime immagini su internet della facciata dell’aeroporto internazionale di Zaventem sventrata da due esplosioni; i video confusi di persone che abbandonano i propri bagagli per mettersi al riparo. Dalla finestra vedo l’ingresso di Rue de la Loi, il cuore del quartiere europeo, sigillata da un cordone di polizia che si apre solo per lasciar passare le ambulanze che evacuano i feriti, per poi richiudersi immediatamente. Il regolare schiamazzo del traffico su Rue des Arts, lungo il perimetro del centro di Bruxelles, ha lasciato prima spazio al silenzio attonito dei civili, poi all’urlo ondivago delle sirene. Eppure, dopo poco, al di là del cordon blue della polizia, la gente e le auto riprendono a camminare, col cuore pesante, ma col passo leggero di chi sa che non può e non deve lasciarsi sopraffare dagli eventi e lasciarsi indurre a facili conclusioni.

Del resto, la rivendicazione da parte dell’ISIS non è arrivata certo inaspettata, dato il modus operandi degli attacchi. Laddove le tattiche di guerra simmetrica adottate da Daesh in Iraq e Siria non potevano evidentemente essere esportate in Europa, il ritorno alla guerriglia e alle tattiche asimmetriche ha trovato ben più facile applicazione a Bruxelles e Parigi oggi come a Londra e Madrid in passato.

Immediatamente viene in mente il collegamento con la recente cattura di Salah Abdeslam, il giovane franco-belga di origini marocchine sfuggito alle forze di sicurezza dopo il venerdì nero di Parigi, lo scorso 13 novembre. È difficile dire se si tratti effettivamente di una ritorsione o di una lunga pianificazione: i quattro ordigni sono esplosi in due stazioni metro e all’entrata dell’aeroporto, prima dei controlli di sicurezza, tutte aree facilmente accessibili senza la necessità di un’attenta pianifIcazione per evitare i controlli delle forze dell’ordine. Probabilmente, la verità sta nel mezzo, come spesso accade: il coordinamento temporale di questo attacco multiplo lascia intravedere una certa pianificazione, che ha poi colto l’occasione del sospiro di sollievo che Bruxelles tirava pochi giorni fa con l’arresto di Abdeslam.

D’altronde, già gli ultimi mesi hanno gettato nuova luce su come il sistema delle cellule jihadiste si stia evolvendo, per lo meno in Belgio, un paese che nei decenni ha attirato migliaia di immigrati grazie alle sue politiche previdenziali, ma che ha fallito in parte a garantire un adeguato livello di integrazione. Ciò che appare evidente a partire dallo scorso 13 novembre è che il terrorismo jihadista non è solo composto da dinamitardi e kamikaze, non solo da pianificatori ed esecutori, ma da una più vasta rete di sostegno – seppur minoritaria nella comunità islamica-  pronta a dare supporto, copertura e rirugio. Come già descritto in un precedente articolo, le zoppicanti politiche di integrazione, unite alla miopia della politica europea e occidentale in Medio Oriente, hanno favorito lo svilupparsi di tale rete, fino a che gli stessi servizi di intelligence pare ne abbiano perso di vista la sua reale portata.

In questa situazione, il senso di impotenza pare sopraffare persino le più alte cariche istituzionali, che da un lato invitano “alla calma e alla solidarietà”, ma dall’altro vengono messe di fronte alla palese incapacità di arginare un fenomeno in rinnovata espansione, cui rispondono accusandosi vicendevolmente dell’inefficienza dell’intelligence dell’uno o dell’altro paese, anziché prospettare misure che siano in grado di arginare e poi neutralizzare il fenomeno della radicalizzazione in maniera efficace e duratura.

Una radicalizzazione difficile da smantellare perché fondata su un’ideologia jihadista-salafita estremamente resiliente, sopravvissuta alla disfatta di al-Qaeda e rimodellatasi nell’ISIS. Un’ideologia che deve essere affrontata in Europa e in Medio Oriente tramite politiche inclusive e bottom-up, limitando l’uso della forza allo stretto necessario per neutralizzare la minaccia armata dell’ISIS. L’errore fondamentale che l’Europa deve evitare oggi è quello di cadere nella trappola della guerra di civiltà insita nell’ideologia di espansione universale del califfatto e fatta propria dallo Stato Islamico. Una visione che le destre radicali europee tendono ad enfatizzare sempre di più, ma che resta minoritaria e inadatta a stereotipi e categorizzazioni.

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L' Autore - Enrico Iacovizzi

Responsabile Difesa europea e NATO - Laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso la Facoltà Roberto Ruffilli di Forlì con una tesi sull’evoluzione delle relazioni esterne dell’UE e sul suo ruolo come potenza civile globale, vivo e lavoro a Bruxelles. Appassionato di politica internazionale ed in particolare dell'evoluzione politica ed istituzionale della difesa comune europea.

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