L’immagine di Enrico Letta e Angelino Alfano che si stringono la mano dopo il voto di fiducia al Senato, platealmente soddisfatti, sarà commentata a lungo. E sarà, probabilmente, utilizzata come un simbolo della nuova era politica che l’Italia si appresta ad attraversare: in molti, nella convulsa giornata del 2 ottobre hanno iniziato a commentare quella foto in un senso ben preciso. Il ritorno, il trionfo, della Democrazia Cristiana. Il faticoso accordo raggiunto tra lunedì e martedì sulla fiducia al governo Letta si sviluppa infatti intorno a persone che occupano le ali più moderate e centriste dei rispettivi schieramenti, e che provengono da storie politiche per certi versi simili. Sono i commentatori politici i primi a suggerire che infine, sì, moriremo democristiani: in un verso o nell’altro.
Per la verità il tratto democristiano più rilevante nella crisi che si è appena conclusa è l’acume politico di Letta e in parte di Alfano. Hanno lavorato dietro le quinte, studiato ogni mossa, si sono esposti il meno possibile. Poi un gesto, molto semplice: mercoledì mattina, entrando in Senato, Alfano si è seduto accanto al Presidente del Consiglio, gli ha stretto la mano. Il primo di una serie di segnali che il centrodestra italiano ha continuato a inviarsi per tutta la mattina, a colpi di biglietti dimenticati o tenuti in modo che i fotografi potessero ben inquadrarli. Il metodo, più ancora che il risultato, ha ricordato a tutti le battaglie parlamentari al tempo della DC. Negli anni ’70 e ’80 il vincolo esterno che manteneva vive ampie coalizioni di governo era l’alleanza con gli Stati Uniti e il Patto Atlantico, oggi invece l’Unione Europea e la difficile realtà economica. Forse la paura di un vero commissariamento, in caso di nuove elezioni, ha convinto la parte moderata, quella che da sempre ama gestire il potere più che andare al voto.
Per fortuna all’aria un po’ grigia da prima repubblica si è aggiunto l’elemento farsa che da qualche anno contraddistingue il PDL, con gli ampi cambi di posizione e i roboanti annunci smentiti dai fatti qualche minuto dopo. I commentatori internazionali sono abituati e ci descrivono come di consueto, non lesinando ironie e sarcasmi. Tra le tante voci, il corrispondente del Wall Street Journal Simon Nixon ha twittato così:
Difficile dargli torto: dopo una settimana di minacce e la quasi certezza che si sarebbe andati al voto, il governo Letta è ancora lì, immutato (le citazioni si sono sprecate, dal Giorno della Marmotta al Gattopardo). Anzi: gode di una maggioranza molto più solida di prima, perché comprende una quota di parlamentari PDL non più disposti a staccare la spina a comando. I mercati hanno approvato (picco massimo di Piazza Affari nel momento in cui Berlusconi annunciava la fiducia) e Mario Draghi, in conferenza stampa alla BCE, ha ribadito l’importanza di un interlocutore stabile, mentre si annunciava disponibile a abbassare ancora i tassi.
Capire cosa cambia a livello europeo è però più complesso. Anzitutto, bisognerà vedere come il PPE prenderà la notizia di una scissione interna al PDL. Se infatti l’immagine dei popolari europei è sicuramente più vicina a quella dei moderati centristi, Berlusconi era una garanzia di voti e di seggi nel Parlamento Europeo, mentre la nuova formazione (qualora si concretizzasse) sarebbe un’incognita. La Commissione e la BCE dovrebbero invece essere pienamente soddisfatte: allontanati i populismi grillini e berlusconiani resta una coalizione simile a quella tedesca, anche se a parti invertite. Se l’obiettivo unico delle istituzioni europee è la stabilità, il risultato c’è.
Ma se Bruxelles si aspetta di vedere un cambiamento nelle politiche economiche di governo, pare difficile. Non è neanche ipotizzabile che Alfano e Cicchitto si prendano la responsabilità di una parziale reintroduzione dell’IMU per coprire sgravi fiscali sul lavoro, come la Commissione ci ha chiesto più volte. Si accorgeranno presto a Bruxelles che la politica democristiana, se è davvero tornata, non è mai stata la politica del rigore, e non lo sarà neanche adesso.
In foto, da sinistra il ministro per le riforme istituzionali Gaetano Quagliariello, il premier Enrico Letta e il vicepremier Angelino Alfano, ieri in aula al Senato (© Palazzochigi – Flickr)