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Charlie Gard, pieghe di un dibattito distorto sui principi della bioetica

In un Paese smarrito nelle paludi dei conflitti tra mondo cattolico e mondo “laico” su ogni aspetto della bioetica, così com’è il nostro, il buonsenso vorrebbe che la classe politica si astenesse da considerazioni improprie sui casi di diritto non domestico. Specialmente se gli esponenti politici in questione non solo risultano poco preparati in materia bioetica, ma anche in fatto di istituzioni legate o meno alle organizzazioni internazionali presso le quali gli stessi soggetti risultano eletti.

La storia di Charlie Gard è ormai tristemente nota: a seguito della diagnosi di una malattia genetica letale, l’unica opzione offerta ai genitori del bambino di 10 mesi è quella di un trattamento  (e non cura) pionieristico offerto in alcune cliniche statunitensi. Il bambino però non ha mai potuto raggiungere gli Stati Uniti perché, a causa di una crisi legata alla propria patologia, ha riportato danni cerebrali tali da poter vivere esclusivamente con il supporto di macchinari.

Il caso giudiziario si è concluso con la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo il 27 giugno scorso. La Corte EDU ha avallato quanto deciso dal Regno Unito, stabilendo che i macchinari che tengono in vita il bambino debbano essere spenti, costituendo una vana forma di accanimento terapeutico.

Una riflessione razionale sul tema dovrebbe tenere conto di quelli che sono universalmente riconosciuti come principi cardine della bioetica “laica” (termine improprio, ma pur sempre efficace nel contesto italico). Si tratta del rispetto dell’autonomia del paziente, della non maleficence nei suoi confronti (non nuocere) e della beneficence (agire nell’interesse del paziente). Su che cosa si fonda dunque il giudizio di un medico che sceglie di interrompere un trattamento? Sul fatto che i costi (fisici e morali, non certo economici) superino i benefici, ossia che la sofferenza prevalga sul sollievo temporaneo apportato dal trattamento.

La retorica inflazionata di questi giorni, che vorrebbe un’arcigna “Europa” quale carnefice e aguzzina di un innocente infante, ha pochissimo da spartire con la realtà dei fatti. Una realtà dove l’unica crudeltà, se di crudeltà è necessario discutere, è quella di una patologia del tutto incompatibile con la vita. Ciò di cui si parla pochissimo, invece, sono i danni relativi all’intubazione del bambino:  infezioni, enormi dolori legati alla routine legata alle aspirazioni della trachea e danni alla stessa. Lo scopo ultimo? Allontanare sempre più il momento in cui i genitori dovranno accomiatarsi dal loro bambino, un momento che, per ciò che la scienza ci garantisce e per quanto remoto, non sarà sufficiente per giungere alla scoperta sensazionale di una cura. Parlare di “amore per la vita”, nonché della sua “sacralità”, risulta spesso fuorviante: l’attenzione si sposta dal soggetto sofferente ai soggetti in osservazione, tentando di dimenticare come in questi casi a “uccidere” non sia l’uomo, ma la malattia.

Riguardo all’impossibilità per un minore così piccolo di esprimere la propria volontà, fiumi di inchiostro sono stati scritti e potranno ancora esserlo. Giuridicamente parlando, la Convenzione di Oviedo ha proposto 21 anni fa che in questi casi a decidere, in ultima istanza, possa essere l’autorità giudiziaria. Una possibilità che non discende dalla volontà dispotica di un’istituzione tirannica, di un governo autoritario. Si tratta invece, a detta degli estensori e degli interpreti, dell’opportunità di dare voce alla sofferenza di chi non può esprimersi, di chi è prigioniero di una coscienza persa o mai sviluppata. Una voce che spesso familiari e persone vicine non sanno dare, offuscate dalla forza di sentimenti che sovrastano la razionalità. In ogni caso, la Convenzione, per quanto prodotto giuridico mirabile basato sui principi cardine della bioetica, non è stata ratificata né dall’Italia, né dalla Gran Bretagna. Ciononostante, essa costituisce l’insieme di linee guida lungo le quali si sviluppano i codici di condotta medica a livello internazionale.

Il Presidente Trump, Papa Francesco I e il Ministro Alfano sono solo alcune delle figure di spicco che hanno proposto varie forme di “fuga” dalla sentenza della Corte di Strasburgo. Una fuga del tutto sconsiderata, perché proposta a dispetto della decisione di un’autorità giudiziaria democraticamente e legittimamente operante. Una fuga insensata, perché in grado di disseminare di nuovi e ulteriori ostacoli l’inevitabile sopraggiungere della morte, alla quale nessun istituzione democratica o non è ancora risultata immune.

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L' Autore - Tullia Penna

Dottoranda in Bioetica (Visiting à Sciences Po Paris; Giurisprudenza UniTo; presso la stessa: Laura Magistrale a ciclo unico in Giurisprudenza e Certificato di Alta Qualificazione della Scuola di Studi Superiori Ferdinando Rossi - SSST). Ex tutor e rappresentante degli studenti della SSST. Mi occupo di principalmente di questioni relative all’inizio e gravidanza surrogata. Appassionata di tematiche trasversali, mi interesso di diritti civili ed evoluzione delle istituzioni democratiche. Nel tempo libero sviluppo le mie abilità di fotografa e viaggiatrice.

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