È di alcune settimane fa la rivelazione del Financial Times in merito a un documento del governo tedesco in cui Berlino delinea la progressiva creazione di un coordinamento militare permanente tra le forze armate dei ventotto Paesi membri UE. Il documento auspica “l’utilizzo di tutte le possibilità” previste dai Trattati per sviluppare un quartier generale civile-militare, un Consiglio dei Ministri della difesa e il coordinamento nella produzione e la condivisione dell’equipaggiamento bellico.
La politica di sicurezza tedesca
La notizia ha scatenato l’entusiasmo di coloro che orbitano intorno a idee federaliste o della “ever closer Union” e l’ira e l’indignazione di chi difende la sovranità nazionale dei Paesi europei e accusa la Germania di tentata egemonizzazzione dell’UE. Di certo ha colto di sorpresa entrambe questi due schieramenti, dal momento che la Germania si è distinta a partire dalla fine della Guerra Fredda per una politica estera e di difesa “dolce” e non particolarmente interventista, come dimostrato già nel 2003 con il rifiuto di partecipare alle operazioni in Iraq o più di recente in Libia, dove la Germania si è astenuta dal partecipare alle operazioni condotte da Stati Uniti, Francia e Regno Unito.
Pur partecipando a operazioni internazionali come K-For in Kosovo o ISAF in Afghanistan, la Germania ha inoltre seguito il trend tutto europeo di tagli al comparto difesa: la Bundeswehr ha più che dimezzato il proprio personale (sceso a circa 250 mila unità) e progressivamente ridotto le spese ad esso correlate. Le direttrici per la riforma delle forze armate tedesche, approvate dal Parlamento tedesco nel marzo 2011, vanno poi in direzione di alcune parole ricorrenti nella narrativa sulla difesa europea, in particolare il famoso doing more with less, per perseguire tre obiettivi cardine: sicurezza del Paese, sostegno ad azioni internazionali cui Berlino deciderà di partecipare, proteggere l’integrità territoriale e quella dei propri alleati.
Tali riforme possono anche essere lette come un tentativo da parte di Berlino di trovare un compromesso tra la sua tradizionale postura “quieta” e la necessità di ammodernare lo strumento militare agli scenari geopolitici odierni e i bisogni da esso derivanti: non a caso gli obiettivi sopra elencati fanno riferimento a un maggior coinvolgimento della Bundeswehr a livello internazionale, come un maggior impegno nella gestione di crisi e conflitti, contribuire alla difesa collettiva degli alleati, una continua partecipazione o operazioni in ambito PSDC, l’espansione della partecipazione della Germania in operazioni in teatri fuori area. Tutte misure che mal si confanno a forze armate che fino a dieci anni fa erano costituzionalmente confinate a operare entro il territorio nazionale.
Il peso dell’industria della difesa
Non si deve poi dimenticare il ruolo dell’industria bellica tedesca, a cui Berlino offre un supporto piuttosto palese e per la quale il semplice mercato nazionale non sarebbe in grado di sostenere il settore e promuoverne sviluppo e innovazione. Per tale motivo, il paper governativo auspica la pianificazione e sviluppo congiunti delle capacità militari dei Paesi europei, pur salvaguardando la sovranità tecnologica tedesca. Un obiettivo ancora lungi dall’essere raggiunto, se si pensa ad esempio al progetto franco-britannico per un FCAS da cui la Germania è rimasta esclusa e rispetto al quale Berlino ha avviato un proprio studio su un Next Generation Weapon System NGWS mirante a sviluppare il successore dell’ormmai datato Tornado e affiancarlo all’Eurofighter Tyhoon.
Un messaggio per Londra?
La politica di sicurezza e difesa resta dunque un argomento in cui i governi nazionali la fanno da padrone. Eppure la storia dell’UE insegna che ogni grande passo in avanti nell’integrazione è stato guidato dall’azione di governi intraprendenti. L’idea di un quartier generale permanente europeo non è peraltro nuova a Berlino, dal momento che già nel 2011 la Germania aveva avanzato quest’idea insieme a Italia, Spagna, Francia, e Polonia. Certo questo periodo di euroscetticismo non aiuta un tale progetto, ma proprio per questo il paper, che volutamente è stato pubblicato a pochi giorni dal referendum sulla Brexit, può anche essere inteso come un tentativo di far capire a David Cameron che se il Regno Unito è pronto ad abbandonare l’UE, Bruxelles è altrettanto pronta a marginalizzare Londra politicamente e strategicamente.