Sembra sempre più incerto il futuro del partito conservatore ungherese Fidesz, guidato dal Primo Ministro Viktor Orbán. Da una parte, il 13 aprile Fidesz è stato vittima di uno storico sorpasso elettorale nelle elezioni parziali della città di Tapolca da parte del candidato del partito di estrema destra Jobbik – formazione che aveva già ottenuto il 20% dei voti nelle elezioni del 2014. Allo stesso tempo sono aumentate le proteste degli ungheresi pro-UE, delusi dal riavvicinamento del paese alla Russia di Putin. Orbán, che rischia di rimanere schiacciato nel mezzo, tenta di giocare su due tavoli al livello internazionale, quello europeo e quello russo, ma sembra essere sempre più interessato a quest’ultimo, come dimostrato dagli accordi multimilionari raggiunti con Putin per l’allargamento della centrale nucleare di Paks, importante sul piano politico oltre che su quello energetico.
L’ accordo
La centrale nucleare di Paks, di costruzione sovietica, fornisce circa il 40% dell’ energia elettrica del Paese, per il resto fortemente dipendente dalle importazioni di gas e petrolio russo. La decisione di affidare alla società a controllo statale russo Rosatom l’espansione della centrale risale al gennaio del 2014. Dopo un lungo periodo in cui era stato annunciato un futuro bando per lo svolgimento dell’operazione – al quale si erano detti interessati anche francesi e statunitensi – il governo ungherese ha fatto dietrofront, annunciando l’accordo con la Russia, definita la miglior offerente. Quest’ ultima ha promesso un prestito per realizzazione dei lavori stimato attorno ad 11 miliardi di euro, con condizioni di restituzione e interessi molto favorevoli, che ricominceranno a essere pagati addirittura a lavori ultimati. La prima ad opporsi all’accordo è stata l’Unione Europea, che ha opposto sia ragioni tecniche, come la mancanza di trasparenza nell’assegnazione dell’appalto, sia preoccupazioni politiche per il possibile aumento della dipendenza energetica ungherese dalla Russia, nonché la crescita del debito pubblico del Paese – fortemente colpito dalla crisi economica.
Le proteste e lo stop UE
A rilanciare il piano è stata la visita di Putin a Budapest nel febbraio scorso, largamente incentrata sui temi energetici. Questa è stata la prima visita ufficiale russa in un Paese UE dopo l’imposizione delle sanzioni alla Russia per la guerra in Ucraina, ed è stata letta da molti come un chiaro segno di avvicinamento tra i due Paesi a spese dei partner occidentali – sottolineato anche dalle critiche lanciate da Orban verso le sanzioni stesse e verso l’illusorietà degli sforzi europei di fare a meno di Mosca. Ad accogliere Putin a Budapest, si sono trovati alcune migliaia di manifestanti pro-UE, che – memori del recente passato del Paese – hanno mostrato bandiere dell’Unione e gridato la loro preoccupazione per un possibile ritorno del Paese nella sfera d’influenza russa. La contromossa europea non ha tardato a farsi sentire. A metà marzo è infatti arrivata una bocciatura del piano da parte dell’Euratom – la quale deve approvare tutti i progetti nucleari dell’UE – che porterà l’Ungheria a dover riformulare i termini dell’ accordo.
Una partita politica
Per quanto proveniente da un ente tecnico, la bocciatura si inserisce in un gioco dai tratti puramente politici. La Russia, sempre in cerca di influenza in Europa, cerca anche di portare dalla sua parte membri dell’UE capaci di fare lobbying per bloccare sanzioni future. Secondo alcuni, anche le ragioni di Orbán andrebbero oltre i semplici motivi di sicurezza energetica, e sarebbero da ricercarsi nella volontà di immettere denaro nell’economia ungherese, in vista delle future elezioni del 2018.
All’altro estremo l’UE, che non può permettersi di lasciare uno dei suoi più importanti Stati membri nell’Est Europa a Putin, specialmente nella situazione geopolitica attuale, segnata dall’efficacia dell’aggressività russa sulla questione ucraina. La partita ungherese risulta particolarmente difficile per l’Unione, visti i rapporti a tratti tesi tra le istituzioni europee ed il populismo autoritario di Orbán, il quale ha già dimostrato di sapersi dissociare dai partner europei per rispondere alle richieste di Putin, come accaduto nel settembre 2014, con la chiusura delle forniture di gas in reverse flow verso l’Ucraina, strozzata dal blocco delle forniture russe.