Il Commissario Moscovici si è esposto mediaticamente dichiarando che le elezioni italiane possono costituire un rischio per l’Europa, criticando apertamente alcuni candidati. Quanto condivide questi timori e quanto è opportuno un intervento così diretto di un rappresentante delle istituzioni europee?
Condivido i timori e non soltanto a partire dalle prossime elezioni. Il progetto europeo è a rischio da tempo, attaccato frontalmente da forze che vogliono un ritorno all’Europa delle piccole patrie, ripiegate su se stesse oltre che irrilevanti, e, più subdolamente, minato da forze che si dicono europeiste ma che ogni giorno non perdono occasione per dare qualche picconata. Sono talmente convinta che ci sia bisogno di più Europa da aver chiamato la nostra lista +Europa. Più espliciti di così!
Moscovici, in quanto custode dei Trattati, non sarebbe uscito dal suo ruolo se avesse espresso timore su di una tendenza generale che sta purtroppo attraversando il continente intero e che rischia di mettere radici, oppure se avesse criticato specifiche leggi liberticide messe in atto negli Stati membri e che rischiano di violare i Trattati – si veda il caso della riforma della giustizia in Polonia o le leggi anti-Ong in Ungheria – altro è esprimere preoccupazione ex ante su di un risultato elettorale non ancora scaturito dalle urne o su altri scenari futuribili.
+Europa porta nel nome un enunciato già visto in diversi programmi elettorali, ma sempre declinato in una chiave critica negativa nei confronti di Bruxelles. Dove sta il cambio di passo per fare dell’Europa un “vero” tema di campagna elettorale?
Come recita il manifesto di +Europa, sono convinta che per affrontare le grandi questioni del nostro tempo occorrano risposte più ampie che può dare solo un’Italia più europea in un’Europa unita e democratica, un’Europa capace di scommettere sulle prossime generazioni senza ipotecarne il futuro creando ulteriore debito pubblico, per noi italiani il problema dei problemi avendo raggiunto livelli davvero storici. Questo è ciò di cui dovremmo discutere, facendo un cambio di passo nel dibattito pubblico dove invece imperversano le più incredibili promesse che io chiamo più semplicemente bufale. Spero che le italiane e gli italiani non se le bevano.
+Europa è nata anche per questo. Il confronto è fra due visioni del posto dell’Italia nel contesto internazionale e soprattutto in quello europeo; tra chi trasmette la consapevolezza della realtà cercando con le sue proposte di incidere come e dove si può in un contesto di riferimento che c’è e dal quale non si può prescindere, – quello della nostra appartenenza all’Unione europea – evitando di abbindolare i cittadini con promesse mirabolanti o dalle quale poi si è costretti a fare marcia indietro – vedi l’uscita dall’Euro o l’abbandono del sistema pensionistico – e chi pensa che si possano acquisire consensi indipendentemente dal fatto che facciamo parte di una famiglia che implica diritti e doveri, nonché compiti a casa che non si possono eludere.
Di questo vorrei poter parlare soprattutto in campagna elettorale, e non facendo la gara di chi la spara più grossa.
Quando parla di questioni europee, nelle ultime settimane, il segretario del PD Matteo Renzi è solito ripetere il seguente slogan: “Europa sì, ma non così”. Una posizione così tiepida sull’Europa non rischia di favorire gli schieramenti populisti ed euroscettici?
Voglio dire a Matteo Renzi che l’Europa se la deve far piacere così com’è. Anch’io vorrei un’Europa più integrata con una vera politica estera e di difesa, una politica comune sull’immigrazione oppure sull’energia, un bilancio degno di questo nome, un ministro unico del Tesoro e magari un presidente eletto direttamente, ecc…Ma l’Europa che vediamo oggi è il risultato anche di tanti anni di presenze tiepide appunto, sempre al condizionale o peggio rivendicative…Non è così che si sta in Europa. Per battere i populisti e gli eurofobici bisogna avere ben altra determinazione e lungimiranza, anche al rischio di passare brutti momenti di impopolarità a casa propria…
Di Maio e Salvini hanno recentemente abbandonato le loro posizioni contrarie alla moneta unica. Come si spiega questo comportamento?
Che nella politica, come nella vita, si ha il diritto di cambiare opinione. Poi occorre però essere credibili. Ecco, loro non lo sono perché un ritorno a una moneta nazionale avrebbe conseguenze nefaste sull’economia del paese e per le tasche degli italiani – ma loro hanno scelto di fare spallucce – e cambiare idea alla vigilia delle elezioni è perlomeno ipocrita. Non chiedo coerenza a nessuno ma un minimo di decenza sì.
Pensa che la Russia cercherà di condizionare il processo elettorale attraverso propaganda e fake news diffuse in rete?
Abbiamo già visto che tutto è possibile. Per questo invito gli elettori a non ascoltare gli slogan urlati, le polemiche e le facili promesse e guardare più ai programmi che danno una visione e un senso di marcia per il futuro. Bisogna, insomma, fare uno sforzo per ergersi al di sopra di questa palude dilagante soprattutto nei social media e concentrarsi sulla qualità dei programmi e la forza dei candidati.
Negli ultimi anni, su forte pressione italiana, l’UE ha iniziato a dotarsi di una politica migratoria comune. Se gli schemi di ricollocamento interno stentano a decollare, le iniziative europee e italiane in Africa sembrano aver rallentato i flussi. Come giudica queste politiche? Pensa che si possa parlare di un processo di europeizzazione dell’interesse nazionale italiano sulle migrazioni?
All’inizio di gennaio ci sono stati 200 tra morti e dispersi in soli quattro giorni, 840 persone sbarcate da inizio anno e almeno 800 persone intercettate dalla guardia costiera libica e riportate indietro nell’inferno ormai ben noto a tutti. Dati tragici che non lasciano spazio a toni trionfalistici.
La missione bilaterale non combat di supporto in Niger, nell’ambito di uno sforzo congiunto europeo e statunitense, appena approvata da un Parlamento in prorogatio, ha forse il merito di spostare l’attenzione sulla direttrice dove il flusso di migranti è più incontrollato ma puntare sull’esternalizzazione del controllo migratorio comporta dei rischi che non vanno sottovalutati. Il primo fra tutti è quello di rafforzare apparati militari e di sicurezza di paesi di origine e di transito senza imporre condizioni minime di rispetto dei diritti umani. Questo è un aspetto cruciale che Governo, Parlamento e Forze Armate farebbero bene a tenere in massima considerazione.
Per la missione in Niger, grande 4 volte l’Italia, si parla di rafforzamento delle capacità di controllo di un territorio vastissimo e complesso, che riguarda tutti i Paesi del G5 Sahel, tra cui la Nigeria, paese da cui provengono la maggior parte dei richiedenti asilo in Italia. Da capire quindi come i nostri comandi militari intendano dispiegare le nostre forze sul territorio in coordinamento con il dispositivo multinazionale, con quale catena di comando ed eventuali regole d’ingaggio, tutti aspetti sui quali c’è l’esigenza di massima trasparenza. Anche sulla riconfigurazione della missione in Libia lascia perplessi un inquadramento eccessivamente orientato al contrasto dell’immigrazione di una missione che invece dovrebbe essere fondamentalmente a vocazione umanitaria. Nel decreto non c’è traccia, per esempio, della previsione di un appoggio dei nostri militari alle operazioni di evacuazione delle persone migranti vulnerabili affidate a UNHCR e IOM, frutto di un’intesa con il Governo di Accordo nazionale libico, un appoggio che darebbe un senso diverso e più chiaro alla nostra presenza finora.
Ma quello che mi preme diventi una priorità – e un prerequisito di qualsiasi azione esterna verso paesi terzi – è assicurare canali umanitari per le persone bisognose di protezione, in attesa che torni un po’ di lucidità per adottare un approccio a lungo termine verso la migrazione economica, attivando vie legali di accesso per lavoro a livello nazionale e a livello europeo.
I grandi avanzamenti nella storia del processo d’integrazione sono storicamente legati a grandi figure politiche: Schuman, Spinelli, Delors, Kohl. Oggi si vive un momento di fascinazione per l’afflato europeista di Macron. Eppure il Presidente francese pare oggi riproporre, con Roma e Berlino, la strategia dei trattati bilaterali cari a De Gaulle, certo non un militante federalista.
L’attivismo a tutto campo di Macron è certamente un fenomeno interessante. Dall’indomani delle elezioni tedesche, con il famoso discorso sull’Europa della Sorbona, non passa occasione, nel perdurare dello stallo politico in Germania, che Macron non occupi tutti gli spazi mediatico-politici lasciati liberi dall’assenza di leadership tedesca. Intendiamoci, non si muove foglia a livello europeo in questo momento e non si muoverà fino a che non sarà costituito il nuovo governo a Berlino, ma Macron c’è, c’è sulla lotta ai cambiamenti climatici, sulle istituzioni, sui rapporti con paesi come la Cina o l’Iran, dove può far sentire la sua voce, che è poi però, lasciatemelo dire, la volontà di affermare un ruolo crescente della Francia in Europa, più e prima di una generosa e univoca prospettiva europeista.
Insomma, Macron vuole che l’Europa conti di più sulla scena internazionale perché da un lato ha capito che il nuovo ordine internazionale che vede Cina e Russia attori globali a tutto tondo e un America sempre più ripiegata su se stessa e priva di una visione comune, “occidentale”, con l’Europa, determina la necessità assoluta per l’Europa di prendersi finalmente in mano, e dall’altro perché pensa che un Europa più forte e coesa non può che essere benefica alla Francia facendo risaltare il suo ruolo motore, da sola o in tandem con la Germania.
Molti sostenitori di un’Europa più integrata ritengono che la Brexit costituisca in realtà un’opportunità per favorire ulteriori prove di integrazioni. Lei è d’accordo con questa visione oppure ritiene che l’addio di Londra costituisca comunque una perdita per l’Unione?
Sono stata troppo in Europa per dimenticare quanto il Regno Unito abbia messo negli anni i bastoni tra le ruote a qualsiasi tentativo di ulteriore costruzione europea. E gli inglesi sono molto bravi in questo. Da sempre sono sostanzialmente favorevoli ad una grande area di libero scambio e stop. Perfino Churchill, quando invocava gli Stati Uniti d’Europa, intendeva “fate l’Europa”, non “facciamo l’Europa”. Tutto ciò premesso, bisogna essere obiettivi e l’uscita della Gran Bretagna è comunque una sconfitta per chi continua a volere ostinatamente un’Europa unita. Con la Brexit ci siamo auto-amputati di 65 milioni di cittadini europei e un paese che – per storia, tradizione e peso politico ed economico – è preferibile avere dentro e non ai margini.