Quest’anno, esattamente il 17 febbraio, si celebrano i primi 10 anni dalla proclamazione dell’indipendenza del Kosovo. Ma è una festa per pochi e scomoda per molti.
Indipendenza tormentata
Scomoda per l’Europa, in pieno stallo. Ancora politicamente divisa tra chi riconosce questo spicchio dei Balcani, come l’Italia, la Germania e la Francia, e chi non ne vuole sapere come Spagna, Grecia e Romania. Funambola, l’Europa rimane attenta a non rompere i delicati equilibri che potrebbero condizionare tavoli caldissimi come quelli per la questione catalana.
Una festa scomoda anche per gli stessi abitanti kosovari. Imprigionati nei loro confini, sventolano una bandiera che richiama solo nei colori e nelle stelle quella dell’Europa, ma che di fatto è più vicina e compresa dal mondo turco. Sventolano anche i passaporti, con i quali però possono muoversi liberamente solo tra i paesi confinanti, Serbia, logicamente, esclusa.
Ma questa festa è scomoda anche per il Governo locale, impegnato a rifarsi un’immagine. A mettere a tacere chi lo accusa di ambiguità, di corruzione e di non sapere arginare mafie e radicalismi religiosi, vedasi l’alto numero di “foreign fighters”.
Ancor più scomoda e inquietante è l’analisi dei dati macro economici, dove la popolazione risulta schiacciata dalla disoccupazione, dai salari contenuti e dalla volontà di emigrare, in primis, in Germania. Attorno a questo tavolo ristretto dei festeggiamenti, non potranno sedere i circa 4.000 militari della KFOR, forza militare internazionale a guida Nato, di cui fa parte anche l’Esercito Italiano, impegnati, fin dal 1999, ad evitare scontri e atti di vandalismo fra le due parti.
La fine del Tribunale penale
Il loro impegno è stato recentemente testimoniato dal prezioso docu-film “Nella terra dei merli: un viaggio nel Kosovo ancora diviso” (Sky Cinema – Regia Andrea Bettinetti), che più che mai ci trasmette volti, paesaggi e una quotidianità, capaci di dirci che tanto è stato fatto ma che altrettanto manca.
In questa cornice, tra questi festeggiamenti più o meno paradossali, si inserisce la chiusura del Tribunale penale per i crimini commessi nell’ex Jugoslavia.
Caduto nell’oblio da alcuni anni, ha riottenuto la sua drammatica celebrità prima con il teatrale suicidio in diretta tv dell’ex generale delle truppe croato-bosniache Slobodan Praljak e poi con la condanna all’ergastolo dell’ex generale delle forze serbo-bosniache Ratko Mladić, per diversi crimini di guerra, tra cui anche l’onta dello sterminio di 8.000 musulmani bosniaci a Srebrenica.
I numeri ci ricordano che le condanne sono state poco più di 100 e che la stragrande maggioranza, 70%, ha riguardato i Serbi, il 20% i Croati, residuale i musulmani e altri attori minori. 5 gli ergastoli inflitti.
Nazionalismo, ferita mai rimarginata
Il Tribunale aveva le sue fondamenta nella risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu numero 827 del 25 maggio 1993, in pieno conflitto in Bosnia. Le sue sentenze, purtroppo alcune, per varie ragioni, emesse a distanza di troppi anni, hanno inevitabilmente riaperto ferite e nazionalismi in quanto non accompagnate da forti politiche europee di integrazione e conciliazione.
Come nell’ultimo caso legato all’omicidio di Oliver Ivanovic. Il principale leader dell’ala moderata e favorevole al dialogo della minoranza serba in Kosovo, ma da un passato per alcuni scomodo, è stato recentemente ucciso da “sconosciuti” nella città di Mitrovica, area abitata da una forte componente serba. Il risultato è stata l’ennesima interruzione del dialogo fra Pristina e Belgrado, decretando ancora una volta la sconfitta delle diplomazie internazionali.
Comunque, buon compleanno Kosovo, anche se saranno festeggiamenti per pochi, con l’Europa, afona, messa in un angolo.
Peccato, abbiamo perso un’occasione: se solo pensiamo che le due Coree, a rischio nucleare, sono a braccetto alle Olimpiadi e giocano persino in una stessa squadra nel torneo di hockey. L’efficacia ed efficienza di una diplomazia passa anche per lo sport.