Un tiepido ottimismo ha pervaso le prime parole di Emmanuel Macron, a caldo dopo che la pole position per il secondo turno delle presidenziali francesi pareva ormai in cassaforte. Certo, il 23,7% con cui l’enfant prodige della politica d’Oltralpe si presenta al ballottaggio è un risultato peggiore di quanto non fecero Sarkozy nel 2007 o Hollande nel 2012 ma, a distanza di un lustro, il quadro politico è rivoluzionato e spaccato come mai prima nella storia della Quinta Repubblica.
Di questo scenario, a ben vedere, l’approdo del Front National (FN) al ballottaggio non la vera novità, dopo che già nel 2002 Le Pen padre seppe scalzare sul filo di lana i socialisti di Jospin: certo, i 7,6 milioni di voti raccolti costituiscono un record che dà ragione ad una campagna spesa a paventare i fantasmi di una Francia assediata dall’immigrazione e dai gioghi finanziari europei. Una prima lettura incrociata dei flussi e della distribuzione dei voti racconta tuttavia la storia di una missione – per ora – riuscita solo a metà. Ormai dal 2014 il FN ha consolidato il suo bacino elettorale nelle aree rurali del Nord e del Sud della Francia, con una coincidenza quasi perfetta tra i “feudi” lepenisti e i dipartimenti con il più alto tasso di disoccupazione, ma ancora in questo primo turno di presidenziali i frontisti non hanno superato la frattura fra campagne e città. Non v’è traccia, ad esempio, di particolare giovamento dall’enfasi posta sulla sicurezza – meglio, l’insicurezza – dei francesi dopo gli attentati: esclusa Parigi, obiettivo fuori portata per il nazionalismo di destra, il Front National non ha sfondato nelle città luogo di attentati. Come Nizza, conquistata da François Fillon, o Tolosa, che ha scelto Mélenchon.
Decisiva nel frenare il flusso positivo di voti verso il FN (+1,2 milioni rispetto al 2012) è stata proprio l’ascesa di Jean-Luc Mélenchon e della sua France Insoumise. Nella lotta fra estremi politici, la sinistra massimalista ha impedito alla destra nazionalista di pescare a piene mani nell’elettorato operaio deluso dal partito socialista, imponendosi come forza di disturbo proprio nelle aree urbane. Significativo infatti come, tra le dieci città più popolose di Francia (sopra i 200mila abitanti, Parigi esclusa) Mélenchon abbia strappato Marsiglia a Le Pen, primeggiando anche a Tolosa e Montpellier, centri industriali e dell’high-tech nel Sud della Francia, e difendendo il feudo socialista di Lille nell’estremo Nord dell’esagono. Per tacere dell’oltre 33% incassato nel dipartimento Seine-St. Denis, in cui ha sede l’aeroporto parigino Charles De Gaulle, il secondo per valore assoluto di disoccupati in tutta Francia.
La relativa forza di Mélenchon è l’altra faccia, opposta a quella progressista di Macron, del trauma che ha disgregato la tradizionale sinistra socialista certificando, anche in Francia, il mutamento nella base elettorale e della ragion d’essere della socialdemocrazia. La certezza della vittoria di Macron al secondo turno si gioca quindi alla luce di una resa dei conti fra gli approcci diversi della sinistra francese verso la frattura politica e generazionale fra la difesa del lavoro e dei suoi diritti e la conquista di uno spazio all’interno di una sfera sociale ed economica resa iper-competitiva dalla globalizzazione. Da un lato il progressismo macroniano che boccia senza mezze misure “l’egualitarismo universalista ed ipocrita” e parla di eguaglianza di opportunità, a partire da un’istruzione ed una formazione al passo con l’innovazione, all’interno di un progetto europeo a fungere da scudo protettivo. Dall’altro, il rifiuto massimalista per eccellenza, la costruzione di una sesta Repubblica, fondata per e dal popolo, ostile a Uber ed ai suoi fratelli della app economy, fuori da NATO ed Unione Europea.
Temi di pancia che ben spiegano la porosità dei corpi elettorali fra destra e sinistra estreme e non lasciano certezze sull’esito del ballottaggio. L’appoggio già garantito da Fillon e Hamon porta in dote a Macron un 25% di consensi (tra repubblicani e socialisti) che tanto Le Pen quanto Mélenchon non hanno tardato a bollare come l’abbraccio del sistema costituito, l’estrema difesa del vecchio regime di fronte all’avanzata del fronte di protesta. Una retorica che fa breccia nell’elettorato più giovane (18-25), non necessariamente colpito dalla disoccupazione ma quantomeno intimorito da un futuro dalle prospettive incerte, che ha votato in gran parte per Le Pen (25,7%) e Mélenchon (24,6%).
Quest’ultimo intanto prende tempo e non si schiera, annullando di getto le pur evidenti differenze tra un tentativo di costruzione centro-sinistra liberale e progressista ed un movimento nazionalista e protezionista. L’appello ad una “consultazione della base” prima di decidere da che parte far pendere l’ago ha un sentore vagamente pentastellato. Toccherà quindi a Macron aprire a sinistra e convincere gli spiriti più giacobini della reale novità del suo progetto europeista e riformatore.