Nei più basilari libri di diritto internazionale si trova una semplice definizione giuridica di Stato, che comprende tre elementi imprescindibili: popolo, territorio e governo. In Libia non c’è un popolo, ma un mosaico di tribù. C’è un territorio, diviso in tre macro-regioni. Non c’è un governo, bensì due.
Le tribù contro il governo di Tripoli
L’unica forma di Stato in Libia è stata quella instaurata dal fascismo italiano negli anni ’20. Il caos regnava sovrano oggi come allora, con la differenza che oggi manca un’autorità forte. Nelle mani del governo supportato a fatica dall’ ONU c’è a stento Tripoli, figuriamoci l’intera Tripolitania. Gli scontri di questi giorni dimostrano una semplice cosa: non si tratta solo di mancanza di controllo sul territorio, anche Assad non controlla parte del suo territorio, ma non si può dubitare della sua influenza. In Libia invece vi sono una sequela di tribù che al governo Serraj chiedono semplicemente più potere.
E’ prevedibile che in un territorio ricco di petrolio, dove le tribù spopolano irrefrenabili dopo la morte di Gheddafi, ciascuna voglia la sua fetta della torta, e richiamarli sotto un’unità è quasi impossibile perché nelle loro menti, nelle storie dei loro padri, una Libia unita non esiste, esistono i clan e i legami di sangue. Questo lo aveva capito l’ex Ministro dell’Interno Marco Minniti, che giocò proprio la carta dei clan nella primavera del 2017 per cooptare le tribù alla volontà di Roma sul tema migratorio, ma le tribù non sono uno Stato. Nello specifico, è la Settima Brigata, milizia ostile al governo Serraj, che in queste ore sta mettendo a ferro e fuoco Tripoli. Ma perché lo fa? Perché rischia di restare fuori dai giochi, dalla partita petrolifera, soprattutto se dovesse andare in porto il piano di elezioni fortemente voluto da Macron e previsto per dicembre prossimo.
L’ombra di Putin dietro il generale Haftar
Chi può guadagnare da elezioni che avrebbero luogo in un clima di instabilità permanente, che non è azzardato definire guerra civile? Naturalmente, chi ha il vero potere, cioè il Generale Haftar, leader del non riconosciuto governo di Tobruk e padrone della Cirenaica. La lotta intestina e sottopelle che il Generale Haftar e Serraj conducono da tempo è lo specchio della situazione del Paese, nonché delle scelte poco avvedute della comunità internazionale. Haftar è un uomo della vecchia guardia di Gheddafi. Il suo potere è frutto di un sistema internazionale che, nonostante tutto, lo legittima. Dalla sua il Generale di Tobruk ha le milizie, il premier Serraj invece ha al massimo il Segretario Generale ONU, e sul campo contano le armi più che le bandiere. Non finisce qui. Haftar gode dell’appoggio del Cairo, di Abu Dhabi e della Russia del nuovo e unico stratega del Mediterraneo: Vladimir Putin.
Nel gennaio 2017 il General Haftar è stato ospitato sulla portaerei russa Kuznetsov al largo della Cirenaica. A questi livelli ogni mossa è un simbolo, e nulla più di quest’ospitata improvvisa faceva capire meglio come la Russia puntasse su Haftar più che sul governo di Serraj, sostenuto invece dall’Onu. La scalata del Generale nei consessi internazionali continua nel luglio 2017, quando Macron decide di ospitarlo alle porte di Parigi insieme a Serraj per provare a tracciare la strada per una mediazione tra i due.
Elezioni, l’accelerazione di Macron
Il tentativo del Presidente francese si è ripetuto nel maggio scorso, con un summit tra le tribù libiche, oltre che tra Haftar e Serraj, ma niente più di quell’incontro metteva in luce due cose: il frammentato scenario politico libico e il narcisismo dell’inquilino dell’Eliseo. Macron ha puntato sulle elezioni a dicembre in Libia, per dare stabilità al Paese, ma soprattutto per rafforzare il potere di Haftar, padrone della Cirenaica, regione dove gli interessi petroliferi francesi più si concentrano (l’Eni ha una presenza maggiore in Tripolitania). Ma indire elezioni in un Paese in guerra civile, elezioni tra l’altro dalle quali è esclusa proprio quella Settima brigata che mette a ferro e fuoco Tripoli in queste ore, significa nascondere il problema sotto la sabbia.
Macron è ben conscio della situazione, ed è per questo che vuole affrettare i tempi. Infatti più la crisi si prolunga più il protettore di Haftar non sembrerà lui, bensì Putin. Le elezioni servono a consolidare lo status quo: una Libia spaccata, se va bene, in due. Una volta che le urne legittimassero Haftar, la comunità internazionale poco potrebbe, e Serraj sarebbe ancora più debole di quanto sia oggi, apparirebbe (come a tratti già è) un burattino delle Nazioni Unite. All’Eliseo sanno che lo stallo libico si risolve solo coinvolgendo Mosca, ma preferiscono farlo una volta che le carte in tavola siano ben visibili: Haftar, sponsorizzato velatamente da Parigi, legittimo leader di un terzo della Libia. In sostanza, il vero vincitore è già Putin, il quale ha dimostrato che nessuna crisi dal Maghreb al Mashrek si risolve senza la Russia. Tuttavia, la Francia vuole la sua fetta della torta, e nonostante tutto è l’unica in Europa a muoversi, se escludiamo l’Italia. L’UE come soggetto politico figura come non pervenuta, gli Stati Uniti non hanno la Libia come primario interesse nella regione, quindi delegano.
L’Europa è l’unica che non dovrebbe delegare, né a Parigi né a Mosca la gestione del problema Libia, senza risolvere il quale è impensabile anche solo capire la sfida dei flussi migratori.