La serata del 30 settembre a Skopje, nella centralissima piazza Macedonia (sotto lo sguardo di un Alessandro Magno in sella al suo destriero), c’è stato chi ha festeggiato: migliaia di persone, spesso avvolte nella bandiera nazionale, si sono rallegrate per il fallimento del referendum per il “renaming”, il cambio del nome del Paese, che avrebbe potuto ridenominarsi come “Macedonia del Nord”.
Alle urne si è presentato infatti solo il 36,89% degli aventi diritto: a poco è servito, quindi, il “battage” mediatico che in questi mesi ha portato nella repubblica balcanica personalità come Angela Merkel o Jens Stoltenberg. Il quesito poneva i macedoni di fronte ad un bivio: “Sei a favore del fatto che la Macedonia aderisca all’Unione Europea e alla Nato tramite l’accettazione degli accordi tra Grecia e Repubblica di Macedonia?”. La risposta è stata un netto “NO”, seppur annacquato da un’astensione tattica che ha coinvolto larghi strati di popolazione. Per l’Unione Europea si è trattato dell’ennesima, e forse ancora una volta imprevista, sconfitta elettorale.
Un accordo mai digerito
Tutto nasce da una ridente località lacustre della Grecia: Prespa. Qui, a pochi chilometri dal confine con la FYROM (acronimo dovuto proprio al rifiuto di Atene di riconoscere la denominazione “Macedonia”), il 17 giugno scorso i primi ministri dei due Paesi, Tsipras e Zaev, avevano firmato una storica intesa. La Macedonia avrebbe finalmente avuto pieno accesso alle istituzioni internazionali ( UE e NATO, cui una parte di popolazione agogna da tempo) in cambio della rinuncia al nome “Macedonia” (divenendo “Macedonia del Nord”) e dell’abbattimento di una una serie di monumenti nazionalisti edificati negli ultimi anni dall’ex premier macedone, Nikola Gruevski. Tra questi tra l’altro, proprio la statua equestre di Alessandro Magno, insieme ad una serie di riproduzioni di personalità macedoni che puntellano (e, secondo molti, deturpano) il centro storico della capitale.
L’accordo, tuttavia, non è mai entrato nei cuori dei due popoli: fin dalla sua firma, tanto i nazionalisti greci quanto quelli macedoni hanno avuto gioco facile nell’incendiare le piazze con una retorica che denunciava il “tradimento” delle classi dirigenti. Argomenti che, specie in un momento di crisi globale nella relazione tra cittadini ed “èlite”, hanno avuto da subito una certa presa, tanto più che moltissimi macedoni hanno visto nell’“imposizione” del cambio-nome un segno della mai sopita tentazione irredentista di Atene nei confronti di Skopje e dintorni. Per i nazionalisti greci, d’altro canto, la “resa di Prespa” non sarebbe stata altro che una ulteriore dimostrazione dell’arrendevolezza di Tsipras dopo la “resa” all’Unione Europea dell’estate 2015, quando la Grecia fu a un passo dall’uscita dall’euro.
La “manina” russa?
Anche in questo referendum, come ormai in tutti i suffragi atlantici o europei, c’è chi ha visto all’opera una “mano” russa: secondo la stampa inglese, in particolare, nelle settimane antecedenti al referendum sarebbero stati all’opera decine di profili social “fake” impegnati nella campagna di boicottaggio delle elezioni. Le pagine social avrebbero fatto leva, in particolare, sulla “dignità ferita” del popolo macedone.
Skopje, insomma, non sarebbe altro che una puntata dello scontro geopolitico, tra la Russia da una parte e gli USA e l’UE dall’altra. Lo stesso premier europeista macedone, del resto, poche ore prima del voto, aveva evocato il sempiterno fantasma di Putin, affermando che “nel caso remoto di non raggiungimento del quorum”, il Paese sarebbe finito “preda dell’instabilità e degli appetiti di forze straniere”.
La crisi europea
A prescindere dalla veridicità delle accuse alla Russia, appare evidente il legame tra il fallimento del referendum e la crisi esistenziale dell’Unione Europea: se persino un paese piccolo come la Macedonia nutre dei dubbi sull’adesione all’UE, oppure decide di non aderirvi perché il “costo” dell’adesione (vale a dire il cambio del nome) non coprirebbe i benefici prospettati, c’è davvero da riflettere sull’attrattività del consesso europeo. L’impressione è quella di un progetto ormai arenato, irrigidito dall’incapacità tedesca di decidere e dalla rabbia delle “periferie” mediterranee, a partire dall’Italia e dalla Grecia. Dopo il referendum su Brexit l’UE è rimasta in piedi, ma le diagnosi che arrivano da Skopje la riportano ancora molto lontana da una condizione ottimale.