Quando l’ISIS toccò il suo apogeo, nell’estate 2015, le cronache internazionali erano piene di resoconti riguardanti il “jihad della diaspora tunisina”, vale a dire le gesta delle migliaia di combattenti jihadisti che partivano da Tunisi e (soprattutto) dalle zone rurali del Paese per dare manforte sia al Califfato siriano che alle cellule libiche agli ordini di Al Baghdadi.
Al centro dell’attenzione
Questa situazione, che avrebbe dovuto creare un allarme internazionale, non ha tuttavia richiamato l’attenzione della comunità internazionale sulla Tunisia, se non quella degli esperti di settore. Proprio quell’attenzione che invece l’aveva travolta nel gennaio 2011, quando una rivolta di piazza – appoggiata da una discreta parte delle èlite tunisine – portò alla cacciata di Ben Alì e all’inizio delle cosiddette Primavere arabe.
Il tour del presidente francese Emmanuel Macron nel Paese, che si è chiuso il 2 febbraio scorso, è caduto in un periodo particolarmente duro per il Paese nordafricano: a inizio gennaio le rivolte contro il carovita (che hanno avuto un contraltare simile in Iran) hanno provocato la morte di un manifestante a Tebourba (ad ovest di Tunisi) e il ferimento di centinaia di poliziotti. Macron, in compagnia del presidente Essebsi, ha dichiarato il leale sostegno della Francia al governo tunisino “in un momento nel quale la popolazione soffre a causa di riforme economiche improrogabili”.
Crisi e FMI
La situazione della Tunisia è simile a quella di alcuni paesi europei che nel recente passato (o a tutt’oggi, come la Grecia) hanno dovuto seguire rigidi programmi compilati dal Fondo Monetario Internazionale, il quale – in cambio dei suoi prestiti – richiede solitamente dolorosi tagli alla spesa pubblica ed eliminazione di numerosi sussidi statali. Inevitabilmente, ciò provoca un diffuso malcontento nelle fasce meno protette della popolazione, che sono costrette a subire rincari su tutti i generi di prima necessità – a partire dal cibo e dalla benzina.
L’austerità targata FMI è stata benzina sul fuoco di un Paese che già da mesi cova una rabbia sorda, basti pensare che nel novembre 2017 una donna si è data fuoco a Senjane, nel Nord della Tunisia, replicando il notissimo gesto di Mohamed Bouazizi, il 26enne che (dandosi fuoco in piazza) innescò la miccia della rivoluzione dei Gelsomini.
Speranze tradite
La rivoluzione del gennaio 2011 venne accolta unanimemente dal mondo occidentale come un momento insperato che avrebbe potuto rilanciare la Tunisia economicamente e politicamente. Tuttavia, le buone speranze non si sono mai avverate: otto anni dopo la caduta di Ben Ali, Tunisi continua ad essere piena di giovani disoccupati e chi lavora lo fa in cambio di salari insufficienti.
A differenza dei paesi mediterranei dell’Europa, dove i giovani disoccupati o precari (pur essendo la maggioranza) non riescono a prendere le strade e a manifestare la loro insoddisfazione, la gioventù tunisina continua invece a far sentire la propria voce, invocando una rivoluzione tradita. L’insoddisfazione è anche alla base della crescente adesione al jihad: si calcola che fossero circa 3500 i combattenti tunisini presenti a Raqqa e dintorni, un numero secondo solo a quello dei ceceni e di altre nazionalità centro-asiatiche.
Appesantita dalla corruzione e dal diffuso clientelismo, stretta in un’instabilità politica che ha prodotto nove governi negli ultimi otto anni, la Tunisia appare avvolta in una nebbia di insoddisfazione e rancore. Una nebbia che potrebbe diventare ancora più fitta se i fantasmi provenienti dalla vicina Libia (tutt’altro che ancora pacificata) dovessero bussare alla porta.