I Rohingya sono un gruppo etnico, di religione islamica nella sua variante sufita, che parla il rohingya, una lingua indoeuropea strettamente legata alla lingua chittagong e più alla lontana alla lingua bengalese. La loro origine è molto discussa: alcuni ritengono indigeni di una regione della Birmania, mentre altri sostengono che siano immigrati musulmani che, in origine, vivevano in Bangladesh e che si trasferirono durante la dominazione inglese.
Circa un milione di appartenenti a questa minoranza vivono in Myanmar e risiedono nello stato di Rakhine, dove rappresentano quasi un terzo della popolazione. In Myamar i Rohingya, sebbene sia possibile attestare la loro presenza già nei secoli passati, sono in gran parte considerati clandestini dal Bangladesh.
Le violenze contro i Rohingya
Tra il 2016 e il 2017 si è registrato un forte aumento delle violenze nei confronti di questa minoranza. Sono stati riportati stupri, omicidi e incendi dolosi e ad aggravare la situazione vi è stato un forte ritardo nell’attuare politiche idonee a garantire l’accoglienza di questa ondata migratoria da parte dei paesi limitrofi. Inoltre la mancata ratifica della Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati da parte di quasi tutti i paesi confinanti con il Myanmar è un elemento che determina la quasi totale assenza di protezione nei confronti di questi migranti.
Il governo centrale (buddista e di etnia dominante di Rakhine), disconosce ufficialmente la definizione di “Rohingya”. Tale termine di autoidentificazione emerse nel 1950 e garantì a questa comunità un’identità politica collettiva condivisa. Il governo si rifiuta di concedere la cittadinanza ai Rohingya e di conseguenza la stragrande maggioranza dei membri del gruppo non ha alcuna documentazione legale, divenendo di fatto apolidi.
Un popolo non riconosciuto
Le diverse leggi in materia di cittadinanza hanno sempre escluso la possibilità di ottenere tale diritto per gli appartenenti a questa etnia. Dal 1990 i Rohingya sono stati in grado di registrarsi come residenti temporanei e di dotarsi di una carta d’identità. Tale soluzione, conosciuta come “schede bianche” e che è stata adottata dalla giunta militare che governa il paese, concede diritti limitati ma non viene considerata come un riconoscimento ufficiale della cittadinanza.
Nel 2014 il governo del Myanmar tenne un censimento nazionale per la prima volta dopo trent’anni. Inizialmente venne garantita la possibilità per il gruppo di minoranza musulmana identificarsi come Rohingya. La minaccia dei nazionalisti buddisti di boicottare il censimento ha però spinto il governo a negare questa opzione. Coloro i quali si definirono come Rohingya sono stati quindi registrati come Bengali, sposando la tesi che i Rohingya sono in realtà immigrati del Bangladesh. Allo stesso modo, sotto pressione da parte dei nazionalisti buddisti, è stato limitato il diritto di voto per il referendum costituzionale del 2015. L’allora presidente Thein Sein ha annullato le carte di identità temporanee nel febbraio 2015, negando di fatto il diritto di voto a quanti erano riusciti ad ottenere questa pur limitata forma di riconoscimento. Nelle elezioni del 2015 non si ebbe nessun candidato di fede musulmana.
Discriminazione per legge
Il governo di Myanmar ha quasi istituzionalizzato diverse forme di discriminazione contro questo gruppo etnico. Sussistono restrizioni nella sfera matrimoniale, regolamenti di pianificazione familiare, occupazione, istruzione, scelta religiosa e libertà di movimento.
Nel 2012 vi furono violenti scontri quando alcuni uomini Rohingya vennero accusati di aver violentato e ucciso una donna buddista. I nazionalisti buddisti bruciarono le case di molti Rohingya, uccidendo più di 280 persone e costringendone alla fuga alcune decine di migliaia. Nell’agosto del 2017, un gruppo militanti noti come l’esercito della salvezza di Rohingya Arakan (ARSA) ha rivendicato la responsabilità di alcuni attacchi nei confronti di posti di polizia ed esercito. La risposta del governo centrale è stata veemente con l’invio in massa di truppe nella regione e il blocco degli aiuti nei campi dei rifugiati. In questa occasione l’esercito regolare ha aperto il fuoco sulla popolazione civile.
Il silenzio del premio Nobel Aung San Suu Kyi
Nel 2016 il primo governo democraticamente eletto di Myanmar è salito al potere. Questo governo si è tuttavia mostrato riluttante a sostenere i Rohingya per paura di perdere l’appoggio dei nazionalisti buddisti e di intaccare una leadership ancora fragile. In un primo momento l’istituzione in agosto 2016 di una commissione consultiva guidata dall’ex Segretario generale dell’ONU Kofi Annan aveva acceso alcune speranze ma le successive esplosioni di violenza hanno frenato questo ottimismo.
Il discorso pronunciato lo scorso 19 settembre da Aung San Suu Kyi, leader de facto del Myanmar e premio Nobel per la pace, ha destato scalpore per aver negato l’esistenza di un tentativo di pulizia etnica. Resta però da comprendere quale sia il reale significato di queste parole, il contesto in cui il governo sta operando e quali saranno le reali future azioni che verranno intraprese. Ignorare la permanenza nei settori chiave del paese di elementi della dittatura che potrebbero facilmente interrompere il percorso democratico appena iniziato sarebbe un grave errore. Solo il tempo potrà dirci se questo sia stato un discorso dettato da una realpolitik necessaria al rafforzamento di una democrazia ancora fragile o piuttosto una sincera menzogna.