All’indomani della Battaglia di Cer e della sconfitta austriaca, Serbia ed Austria covavano ancora progetti bellici, nonostante la situazione strategica complessiva sconsigliasse azioni di tipo offensivo. Il Generale austriaco Oskar Potiorek, comandante in capo del fronte balcanico, era desideroso di infliggere una sconfitta alla Serbia per vendicarsi a sua volta di quella subita.
Il Generale Potiorek, quel fatale 28 giugno di cento anni fa, sedeva nella stessa automobile che trasportava l’Arciduca Francesco Ferdinando e la moglie Sofia Chotek per le strade di Sarajevo, quando la coppia fu uccisa dai proiettili di Gavrilo Princip. Avendo raccolto l’ultimo respiro dell’Arciduca morente, che non aveva saputo proteggere, nonostante gli indizi di un imminente attentato, Potiorek si sentiva la persona designata dal caso che avrebbe vendicato l’erede al trono e salvato la coesione dell’Impero Austro-ungarico, minacciata proprio dallo spettro dell’irredentismo serbo.
Potiorek insisteva presso il proprio Quartier Generale per ottenere via libera ad una nuova offensiva contro la Serbia. Sembrava avesse fatto tesoro della prima sfortunata esperienza e si era reso conto che, per ripetere con prospettive di successo l’invasione della Serbia, pur non disponendo di una chiara superiorità numerica, bisognava mantenere più vicine e coordinare meglio l’azione della propria armata, di modo da poter agire con forze più concentrate e su un fronte più ristretto.
Dalla parte nemica il comandante supremo serbo, il voivoda Radomir Putnik, soddisfatto per la sconfitta inferta, si trovò a dover risolvere questioni di carattere logistico: la direzione d’attacco più sensibile per gli austro-ungarici sarebbe stata, ovviamente, quella che passa attraverso il Danubio e la Sava, vista la relativa vicinanza ad importanti città ungheresi.
A questa soluzione del problema offensivo si opponevano, però, sia considerazioni di carattere militare, sia di carattere sociologico. Avanzando a nord, infatti, l’esercito serbo avrebbe presto superato il territorio abitato da popolazione serba per addentrarsi in quello abitato da Rumeni del Banato, Croati e Ungheresi: diffidenti i primi, inevitabilmente ostili gli altri.
La direzione d’attacco più conveniente era senz’altro non quella verso nord, oltre il Danubio e la Sava, ma quella verso ovest, cioè verso la Bosnia-Erzegovina, attraverso la Drina, la stessa che già aveva individuato, ma in direzione opposta, il comando avversario.
Il lancio dell’offensiva fu stabilito da Putnik per il 6 settembre e avrebbe dovuto svilupparsi in due tempi, separati anche nello spazio: offensiva di “assestamento” a nord, in Sirmia, per raggiungere le forti posizioni difensive del Danubio, e offensiva principale ad ovest, attraverso la Drina, sostenuta dal Gruppo d’Armata Užice e, all’estrema ala sinistra, dall’Esercito montenegrino.
Gli scontri, altalenanti per entrambe le parti, si protrassero fino al 4 ottobre, quando la lotta si spense lasciando entrambi gli eserciti spossati e in crisi di munizionamento. Le difficoltà del terreno e della stagione, con le piogge autunnali che gonfiavano i fiumi e trasformavano le strade in pantani pressoché impraticabili, rendendo i trasporti estremamente difficili, contribuirono a questa sosta nelle operazioni. Si pervenne ad un esito positivo per il fronte austriaco, ma, allo stesso tempo, ben lontano dal soddisfare a pieno le aspettative iniziali: la ritirata dell’Armata serba e la creazione di una testa di ponte da parte degli austro-ungarici in territorio serbo.
Foto: cavalieri dell’Armata serba si avviano alla Battaglia della Drina (Wikimedia Commons)